Psicodramma Freudiano tra Dolore e Trauma
Nientità e dolore, attraversare il trauma e la sua traccia indelebile
Il Niente, per noi, è ciò che non è evidente – elemento sovra e sottoliminale – è la cosa senza “la sua traccia”.
Le cose si fanno al mondo con una “traccia” che è il segno
del loro passaggio, del loro farsi al mondo. Noi diciamo essere “niente”, proprio la cosa “mondata” della sua traccia, del suo farsi “evidente” (al mondo).
Finora codesto “niente” non è esistito (al mondo). Nulla, finora, sta al mondo senza un segno della sua presenza Noi indichiamo un altro livello di “presenza”: quello dove nuove cose si facciano, senza la necessità di produrre la traccia, come segnale della loro esistenza: fu questo il limite posto dalle cose a difesa di sé dalla morte, che tutto in sé uniforma[1].
La citazione di Paolo Ferrari mi introduce al tema del trauma, del dolore e della nientità, ogni cosa in qualche modo ha una traccia e questa traccia ne figura la presenza, la traccia è un segnale che rileva l’esistenza di quel nulla che ha per così dire una storia e in definitiva questo limite che segnala l’esistenza, non fa altro che porsi come difesa dalla morte che tutto uniforma.
Il tema del niente, del nulla, del dolore ben si ricollegano al trauma: quel qualcosa che rimane indelebile e che produce quel senso di annichilimento o di angoscia o di qualsiasi forma di disagio, depressione o altro nel ricordare o in una traccia subliminale.
Affrontare questo tema permette di collegare tanti aspetti che entrano nel vivo della questione e riescono a comprendere le emozioni che emergono e quelle che restano impassibili e chiuse in un atteggiamento estraneo verso la società, gli altri, la relazione.
In psicoanalisi si parla spesso di quel linguaggio che introduce la suggestione della parola.
Il linguaggio è l’ultima o la penultima via alla ‘difesa’. La fittizia difesa onde poter dire che l’organismo-cosa, il soggetto-uomo-vita hanno esistenza reale in un’opposizione valida all’annichilimento della morte[2].
Questo aforisma complesso ci parla delle difese, ma anche la certezza di essere e opporsi all’inerzia o al silenzio. Le parole sono al centro dell’attenzione non solo del nostro lavoro, ma del nostro vivere quotidiano; la valorizzazione della parola ci offre il modo di entrare in contatto, di riconoscere e permettere il riconoscimento dell’altro: soprattutto dell’altro che soffre, che ha subito una violenza o che l’ha percepita tale per la sua sensibilità e per la modalità con cui è accaduta.
La storia ci insegna che in tutti i tempi gli esseri umani hanno sofferto dell’irruzione violenta nella loro psiche e che questa irruzione li ha durevolmente segnati, perturbando non solo la vita ma spesso anche i loro sogni. Se ci riferiamo alla storia degli ultimi due secoli potremo evidenziare tanti concetti di nevrosi traumatica e di nevrosi da guerra; in questi ultimi decenni la definizione di questi stessi concetti è stata poi messa in dubbio per motivi di risonanza psicoanalitica, e anche il DSM americano ha proposto la loro sostituzione con il concetto di stato post-traumatico di stress. Si è rilevato, tuttavia, che non tutti i quadri clinici da allora osservati dopo un trauma si sono poi strutturati in nevrosi traumatica.
Tenendo conto di queste riflessioni, andando controcorrente, la scuola francofona ha proposto di utilizzare la denominazione generica sindromi psicotraumatiche. Essa ha il merito di enunciare esplicitamente che si tratta di un trauma psichico e può coprire tutti gli stadi della patologia traumatica: immediata, post-immediata e cronica. Inoltre, tra quest’ultimi, permette di inquadrare bene anche i casi strutturati come nevrosi traumatica, che rispondono ai criteri restrittivi del PTSD, e tutti gli altri casi non chiaramente classificabili o atipici.
Il trauma è un'esperienza che lascia una traccia profonda in chi lo vive. Si verifica a seguito di un evento che crea una "rottura" nella vita psichica, manifestandosi attraverso segnali che non sempre il cervello riesce prontamente a elaborare.
Secondo l’approccio della psichiatria francofona, i concetti di stress e trauma non si situano sul medesimo registro. Mentre lo stress coinvolge l’area bio-neuro-fisiologica attivata dall’allarme, ovvero la mobilitazione e la difesa messe in atto da un organismo di fronte a un’aggressione o una minaccia, il trauma agisce su un registro psicologico. Definiamo quindi il trauma come il fenomeno di lacerazione dell’apparato psichico e delle sue difese in seguito alle eccitazioni violente afferenti con il sopraggiungere di una possibile minaccia o aggressione nei confronti della vita o dell’integrità (fisica o psichica) di un individuo.
In presenza di un trauma, abbiamo, da parte dell’individuo, il confronto con la realtà della morte e del nulla senza che vi sia la possibilità di attribuirgli un senso o una simbolizzazione. Se lo stress ci porta quindi alla mobilitazione delle risorse umane, il trauma conduce alla violazione delle difese psichiche. Mentre uno descrive le tempeste neurovegetative, l’altro la clinica dello “spavento”. Si può notare, quindi, come sul piano clinico non vi sia equivalenza tra questi due registri.
Approfondendo la riflessione di Freud sulla metafora della “vescicola vivente”, Lebigot (2005) sottolinea che quando c’è un trauma gli stimoli nocivi penetrano molto profondamente nell’apparato psichico, raggiungendo non solamente il livello dell’inconscio, ove potranno un giorno, grazie a un percorso psicoterapeutico, stabilire dei legami con le rappresentazioni e di conseguenza trasformarsi in ricordi dotati di senso, ma anche l’area legata alla rimozione primaria e quindi irraggiungibile dalla coscienza. L’area della rimozione primaria, preesistente all’acquisizione del linguaggio, è il luogo in cui si depositano i primi vissuti legati all’alimentazione, le esperienze primitive di annientamento o appagamento, esperienze che con la conquista del linguaggio diverranno l’oggetto della rimozione primaria.
L’esperienza traumatica, aggirando il ricorso al linguaggio, bypassa nello stesso tempo la rimozione primaria. In tale processo, l’individuo, inorridito ma nel contempo affascinato dall’evento, verrà ricondotto alle sue primitive esperienze di godimento e annientamento; inorridito perché si trova davanti al nulla dell’origine; affascinato poiché egli ritrova l’oggetto perduto del seno materno. Da ciò il suo attaccamento morboso e segreto al proprio trauma; solamente dopo un paziente lavoro psicoterapeutico l’individuo potrà rivelare questo attaccamento segreto. Questo attaccamento viene vissuto in taluni casi come trasgressione e come tale darà origine al senso di colpa; di fatto, il trauma conduce a un confronto improvviso con la realtà della morte e del nulla, senza che vi sia possibilità di interporre lo schermo protettivo dei significati.
Abbiamo appreso come Il trauma sia un'esperienza altamente destabilizzante che porta la persona a sentire minacciata la propria incolumità e sopravvivenza fisica o psicologica. La parola "trauma" deriva dal greco antico e significa "lacerare", "ferire": la situazione traumatica crea una rottura, uno shock talmente violento da disorganizzare la mente di chi lo vive e le capacità di risposta personali. Basti pensare a eventi estremamente stressanti o pericolosi, quali incidenti automobilistici, abusi fisici o sessuali, perdite significative, disastri naturali o qualsiasi altra situazione che metta in pericolo la vita o l'integrità di una persona. Il trauma è un episodio altamente impattante, al punto da non essere sempre integrabile all'interno della vita psichica. In questi casi, l'esperienza traumatica può rimanere fuori dalla coscienza e dalla consapevolezza, portando a sintomi di dissociazione e all'insorgenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD).
Riguardo alle reazioni dell’individuo, possiamo distinguere le patologie psichiche delle vittime in funzione di tre fasi: immediata (dalle prime ore al primo giorno), post-immediata (dal secondo giorno al secondo mese) e cronica (dopo i due mesi). Nella fase immediata, possiamo osservare la reazione di stress adattivo (non patologico), la reazione di “stress depassé” (patologico) o delle reazioni apertamente patologiche di carattere ansioso, isterico o delirante.
Lo stress adattivo è una reazione d’allerta e mobilitazione finalizzata alla salvaguardia dell’individuo. Sul piano biofisiologico, questo stato si manifesta con l’accelerazione dei battiti cardiaci e del ritmo respiratorio, l’aumento del tasso di zuccheri nel sangue e il suo afflusso dalla periferia verso gli organi centrali. Sul piano psicologico, lo stato di allerta e mobilitazione si esplicita nelle aree cognitiva, affettiva, volitiva e comportamentale. In un minor numero di casi possiamo osservare una reazione inadatta, definita di “stress depassé”. Solitamente questa reazione ha luogo in individui psicologicamente fragili o non preparati o indebolititi a causa di vari fattori come la stanchezza o l’isolamento. La reazione di “stress depassé”, osservata anche a seguito di aggressioni estremamente violente, troppo prolungate o ripetute con brevi intervalli di tempo, può presentarsi sotto quattro forme: il congelamento, l’agitazione, la fuga panica e l’attività automatica, comportamento, quest’ultimo, in cui il soggetto effettua automaticamente dei gesti inutili di cui non avrà ricordo. In casi eccezionali, generalmente nei soggetti predisposti, si possono evidenziare delle reazioni isteriche d’agitazione o conversioni, che danno al soggetto l’illusione di essere fuori pericolo, ma si possono anche manifestare reazioni tipicamente psicotiche, come stati confusionali, reazioni deliranti, stati di agitazione maniacali, prostrazione depressiva.
Riconoscere la clinica della reazione immediata è molto importante. È infatti a partire dai suoi sintomi che lo specialista intervenuto sul campo potrà determinare se la vittima ha reagito all’evento con un semplice stress, come si è già detto solitamente adattivo, o se lo ha vissuto in maniera traumatica, carica di conseguenze psicopatologiche. L’esplorazione di questi momenti si rivela molto importante anche in un secondo tempo, quando lo psicologo incontrerà la vittima durante il periodo post-immediato, perché l’analisi di questo periodo immediato gli fornirà indicazioni precise sull’impatto, traumatico o meno, che l’avvenimento ha avuto sul soggetto, dandogli così la possibilità di padroneggiare gli avvenimenti con la verbalizzazione delle esperienze vissute nei primi momenti e in taluni casi in una immedesimazione spontanea ad esempio nel giocare un’esperienza tramite lo psicodramma. Il dispositivo flessibile fornirà uno spazio adeguato alla spontaneità che a volte presenterà in un’impasse o in una frase spontanea casuale un ricordo incisivo traumatico pur senza un collegamento immediato ad esso.
Proseguendo nell’analisi si evidenzia come nel periodo post-immediato al trauma possono presentarsi due possibilità: la risoluzione dei sintomi del periodo immediato, caso in cui l’individuo non è più offuscato dai ricordi dell’avvenimento, ovvero la persistenza dei sintomi, circostanza in cui l’individuo è ossessionato dai ricordi dell’avvenimento e inizia a presentare nuovi sintomi, come reviviscenze, disturbi del sonno, ansia fobica, sintomi che lasciano pensare all’instaurarsi di una patologia psicotraumatica durevole.
Ci potremo chiedere allora quali sono i segnali del trauma, non è infatti sempre facile riconoscere quali sono i segnali di un trauma. Imparare a individuare le manifestazioni del trauma è un passo importante per iniziare a prendere consapevolezza e favorire la sua elaborazione.
Ad esempio flashback e pensieri intrusivi: ricordi, sogni, flashback in cui si ritorna all'evento traumatico, come se stesse accadendo di nuovo. In tal caso i flashback possono portare alla completa perdita di consapevolezza dell'ambiente circostante e possono presentarsi improvvisamente, in modo molto vivido e minaccioso, anche in risposta a un trigger, ossia uno stimolo "attivatore" che riporti il soggetto alla situazione traumatica.
Si possono verificare improvvise esplosioni di rabbia: cioè il trauma può manifestarsi attraverso questi cambiamenti di umore, irritabilità, aggressività, portando anche a vere e proprie esplosioni di rabbia, dopo una minima o talvolta nessuna provocazione, spesso espresse con aggressione verbale o fisica nei confronti di persone, oggetti, oppure verso se stessi con condotte autolesive.
Si possono in altri casi presentare disturbi del sonno: accorgersi di aver difficoltà a dormire o incubi frequenti. Il sonno può essere disturbato da incubi, ricordi traumatici o da una condizione di ipervigilanza.
Si verifica in altri casi uno stato di allerta costante: le persone traumatizzate possono essere facilmente scosse o agitate, in uno stato di ipervigilanza che si manifesta con esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, ansia e attacchi di panico. Si è costantemente in allerta, in alcuni casi con un aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna.
In altri casi si percepisce un forte senso di colpa o vergogna: le persone traumatizzate possono provare spesso senso di colpa o vergogna riguardo all'evento, pur non essendone responsabili.
Un fenomeno particolare è l’evitamento; in tal caso vengono evitate situazioni, luoghi, pensieri che possano riportare all'evento traumatico, portando, in molti casi, anche a un preoccupante isolamento sociale.
Tutto ciò favorisce difficoltà nelle relazioni; le persone con trauma possono infatti ritirarsi dalla vita sociale e familiare, provando a evitare situazioni che potrebbero scatenare ricordi dolorosi. Il trauma può influenzare negativamente le relazioni personali, portando a problemi di fiducia, intimità e comunicazione.
In alcune tipologie di trauma si verifica una vera e propria amnesia o una percezione distorta: vengono dimenticati aspetti relativi all'evento traumatico, sviluppando convinzioni e percezioni distorte su se stessi, sugli altri o sulla causa/conseguenza dello stesso evento traumatico.
In alcune situazioni l’effetto traumatico è talmente pernicioso che dà adito a vere e proprie dipendenze, come uso di alcol o sostanze per far fronte al trauma, generando problemi di dipendenza.
Infine possono verificarsi quei sintomi cosiddetti dissociativi di depersonalizzazione e derealizzazione, dove in alcuni casi può capitare di sentirsi distaccati dai propri processi mentali o vivere esperienze persistenti o ricorrenti di irrealtà dell'ambiente circostante.
Considerata la portata destabilizzante dell'episodio traumatico, spesso i ricordi legati al trauma restano al di fuori della consapevolezza, per permettere alla persona di continuare a vivere e proseguire nella sua quotidianità. L'amnesia dissociativa permette alla persona di andare avanti nella propria vita, evitando i ricordi dolorosi. Le conseguenze del trauma, però, possono, poi, presentarsi sotto forma di sensazioni corporee e immagini intrusive: non appena uno stimolo richiama in memoria la situazione traumatica, il corpo si attiva in maniera estrema e deregolata, rivivendo spesso l'episodio e lo shock attraverso flashback o pensieri intrusivi.
In alcuni casi può anche accadere che la vittima, che inizialmente non provava alcuna sofferenza, possa iniziare a presentare nel corso di alcuni giorni i segni di una patologia psicotraumatica. È nel periodo post-immediato che abbiamo l’indicazione di un intervento psicoterapeutico post- immediato. I clinici americani, riconoscendo questa fase, hanno introdotto la diagnosi di “Disturbo Acuto da Stress”.
L’instaurarsi di una patologia psicotraumatica cronica, a causa di un’aggressione o di una catastrofe, avviene solitamente al termine del periodo post-immediato e in un lasso di tempo che va dai tre ai trenta giorni. Questo periodo, denominato cronico-differito, è quello della nevrosi traumatica. Al concetto di nevrosi traumatica i clinici sono molto legati, perché implica, dietro il
livello superficiale dei sintomi di reviviscenza e di quelli non specifici, come l’astenia, l’angoscia, i disturbi di conversione, le somatizzazioni e i disturbi comportamentali, un’alterazione soggiacente della personalità.
Anche se non tutte le esperienze traumatiche conducono alla nevrosi traumatica, nella pratica possiamo osservare lo sviluppo di tutta una gamma di sindromi psicotraumatiche croniche (Crocq, 1992), pauci- o multisintomatiche, moderate o severe, poco fastidiose o invalidanti, transitorie o durevoli. In questa gamma, alcune sindromi corrispondono alla nevrosi traumatica, altre rispondono ai criteri delle sindromi da stress o presentano clinicamente una sintomatologia non specifica (astenia, ansietà, depressione, condotte patologiche) mascherando le reviviscenze e l’alterazione della personalità, e a volte vengono collocate nell’ambito delle patologie associate.
Dal punto di vista terapeutico, la scuola di psichiatria francofona auspica un intervento immediato sul campo, che dovrà essere continuato nella fase post-immediata. Questo intervento si muove in base ai principi etici e terapeutici differenti da quelli tipici dell’azione terapeutica classica, praticata dagli psicoanalisti o dagli psicoterapeuti nelle loro sedute. Essi sottostanno a degli obiettivi precisi. Rileviamo che nella pratica psicoanalitica e psicoterapeutica molta importanza ha la narrazione, talune associazioni ma anche quei silenzi che a volte mettono in risalto la paura e la nientità. La parola in tal caso modifica le mappe cerebrali nel lavoro analitico – come ci insegnano le neuroscienze e l’empatia - e riconoscendo la persona, il suo dolore, il trauma che ha subito, in tal senso sarà possibile parlarne a volte con parafrasi, ma anche trovare quel momento in cui sia possibile gradualmente rimuovere l’impasse del trauma stesso che potrà riemergere in forma diversa, con parole diverse, con situazioni differenti ma già si ha un’elaborazione efficace del trauma.
Ci si può chiedere sino a che punto la teoria, in psicoanalisi o in psichiatria o nello psicodramma freudiano, sia il tentativo di legittimare la pratica, utile in quanto rassicura, valorizza il terapeuta e nel contempo crea un parapetto. Quando in psicoanalisi intervengono i concetti fondamentali, le contraddizioni sono flagranti e permanenti. La psicoanalisi può essere considerata una scienza ma non nell’accezione del termine, autorizza quasi tutti i discorsi, sottomettendoli ad un’esigenza fondamentale, ricordando che non c’è niente di più ingarbugliato della realtà umana.
Lacan dice:
Se voi credete di avere un io ben adattato, ragionevole, che sa navigare, che sa riconoscere quello che c’è da fare e da non fare, che sa tener conto della realtà allora non c’è alto da fare che andare lontano da qui. (…) Non sappiamo, noi analisti, che il soggetto normale è essenzialmente qualcuno che si mette nella posizione di non prendere sul serio la parte maggiore del suo discorso interiore? È per questo motivo che l’alienato è per molti il posto in cui possiamo essere condotti se cominciamo a prendere le cose troppo sul serio. Il malinteso è il fondamento del discorso umano, come se si temesse di essere capiti. Il senso del mistero: Credo che a lasciarlo svanire si perda l’essenziale stesso della cadenza sulla quale tutta l’analisi deve essere fondata.
Il trauma è infatti un'esperienza dolorosa che può lasciare cicatrici profonde nella mente, oltre che nel corpo, di una persona. Non è sempre facile riconoscere i segnali del trauma; imparare a farlo è fondamentale per iniziare un percorso volto alla guarigione e all'elaborazione dello stesso. Ogni persona ha un proprio livello di vulnerabilità al trauma, così come ognuno di noi possiede dei fattori protettivi che possono favorire la resilienza e l'adattamento agli eventi minacciosi. Il trattamento analitico, sia psicoanalitico sia psicoterapeutico, noi lavoriamo con lo psicodramma analitico freudiano e potremmo l'obiettivo intrinseco sia quello di sviluppare la personale capacità di resilienza del soggetto, sostenendolo nell'elaborazione dell'episodio traumatico. Il trauma può avere un impatto significativo sulla qualità della vita di chi lo ha vissuto; per questo motivo il supporto di un terapeuta e meglio di un gruppo può aiutare a esplorare e gestire i ricordi traumatici in modo sicuro e guidato, a volte mediante tecniche di psicoterapia scientificamente validate specifiche per il trattamento di taluni traumi, ma anche semplicemente attraverso una rappresentazione di altri o un proprio coinvolgimento in una scena, ove spesso la spontaneità porta alla luce una parola complessa, un flash, un ricordo doloroso o solamente un lapsus che alla sua origine porta qualcosa di sconosciuto ma vivo nell’espressione.
Riconoscere i segnali di un trauma può essere un aspetto cruciale per l'elaborazione dello stesso: grazie al supporto dello psicodrammatista che non solo si è ben formato ma avuto esperienze formative in tale ambito, potrà aiutare il soggetto traumatizzato e potrà intraprendere con lui un processo di consapevolezza e anche se lo scopo primario della psicoanalisi non è la guarigione il soggetto potrà liberarsi del trauma e in tal senso sentire un effetto benefico in cui sente di aver superato l’impasse: in questo proprio il gruppo potrà essere il supporto che consente tale espressione e di liberare qualcosa che troppo a lungo è stato tenuto nascosto o inaccessibile.
Rispetto a questo potremmo rilevare come Il dolore e le reazioni psicologiche che si verificano a seguito dell'esposizione a un evento traumatico possano variare notevolmente da persona a persona. Esistono, infatti, diverse forme di esperienze potenzialmente traumatiche a cui si può andare incontro nel corso della vita: l'effetto sulla persona può dipendere dal tipo e dalla gravità del trauma, pertanto, esperienze traumatiche diverse sono associate a differenti probabilità di sviluppare uno o più segnali descritti in precedenza, fino a portare al disturbo da stress post- traumatico.
Nell’ordine del senso niente può essere durevolmente colto, la relazione di comprensione è un miraggio inconsistente. Il sentimento di identità personale dell’analista costituisce la fonte più sicura di informazioni riguardo ai pazienti. Più qualcuno è malato, più è importante, per far sì che il trattamento riesca, che sia riconosciuto come terapeuta per il suo analista: è una necessità assoluta per chi non ha potuto curare né guarire, per così dire, i propri genitori.
Searle[3]3 scrive: Il paziente è malato nella misura in cui le sue tendenze psicoterapeute hanno subito vicissitudini tali che queste si sono fermate insoddisfatte, anzi non riconosciute; quindi si sono mescolate delle componenti di odio particolarmente forti, di invidia, di competizione.
Nello psicodramma l’espressione globale, verbale e corporea, dei conflitti e dei temi affettivi latenti crea delle situazioni terapeutiche utili. L’evocazione dei personaggi e delle situazioni reali, trasformati da un fantasma, restituisce una parte importante del campo relazionale, passato o attuale, offre l’occasione di un’analisi, fonte di un possibile cambiamento.
Lo psicodramma trae la sua originalità dal gioco e dall’analisi che se ne può fare nel gruppo. Come in un teatro ma senza scenario nei costumi, né testo, si giocano degli istanti di sé, due o tre cose profondamente legate al corpo e all’inconscio, sorte lì all’insaputa dei protagonisti, si potrebbe dire senza che se ne accorgano. Più che al gioco stesso, che ha la funzione di svelare, è con queste due o tre cose che il terapeuta ha a che fare. Queste interrogano in tutti gli istanti il transfert e il desiderio di essere terapeuta nello psicodramma.
Il lavoro associativo che agisce in ciascuno avviene nelle successioni delle sedute. Il gruppo di psicodramma è costituito dall’Animatore, volte da altri coterapeuti (quando il gruppo è particolarmente grande e nel caso in cui vi siano terapeuti disponibili), importante è il ruolo di un osservatore esterno (il quale non entra né nel gioco né nello svolgimento dello psicodramma attivamente, ma alla fine dello psicodramma viene invitato dal conduttore dello psicodramma a sottolineare alcune parole espresse durante il gioco dello psicodramma o nella riflessione attinente a quel gioco). Generalmente il gruppo costituito da più persone proprio per l’importanza del gruppo nello psicodramma ha la possibilità di aprire un orizzonte diverso ad una storia narrata, ad un gioco che si è rappresentato proprio grazie al fatto che tutto è restituito nel gruppo e tutto si può dire, tutto può accadere e fa parte di quello che emerge dal gioco, un gruppo nella fattispecie non troppo strutturato al fine di permettere la flessibilità del dispositivo dello psicodramma.
Si gioca senza accessori, in uno spazio limitato, al centro del gruppo disposto circolarmente con uno spazio vuoto all’interno della disposizione. Si mima tutto: gli abbracci, il mangiare, lo schiaffo: non si è nel reale si è nella rappresentazione. La condizione della terapia è che il luogo, il gruppo, l’azione drammatica siano immaginari. Far finta di: è l’essenza stessa dello psicodramma. Tutto ciò che succede tra i membri del gruppo è riportato al gruppo. Questa regola frequentemente infranta, è necessaria, nella sua enunciazione, in quanto permette di non far deviare il gruppo terapeutico verso quello reale.
Il gruppo di psicodramma si ritrova in uno spazio terapeutico determinato dalle sue proprie regole. Ognuno allude alle sue attitudini, ai suoi malesseri, alle sue sconfitte sentimentali, sociali, professionali. Lo Psicodrammatista rileva il punto nodale dell’interrogativo del gruppo lasciando un momento di silenzio in cui si enunciano in modo libero temi o questioni a cura dei partecipanti in modo libero, a volte delle interiezioni o delle frasi che aprono ad una rappresentazione che si può per così dire giocare con l’ausilio di qualcuno che possa intervenire nella scena.
È la rappresentazione del discorso dell’altro, attraverso il cambiamento e il rovesciamento di ruolo, che permette di evidenziare le proiezioni e le identificazioni che si infiltrano e si insinuano nei rapporti. Il doppiaggio ovvero il ripetere presuppone qualcosa della comprensione intuitiva, che si potrebbe dire dell’incontro di due inconsci; tenta di dire quello che l’altro sente. La parola del doppio accompagna il gesto del protagonista, così come la madre, quando accudisce il bambino, tenta dire quello che lui sente.
Emergenza del tema, messa in scena, analisi del gioco, associazioni che suscita, altri giochi che possono essere indotti dal primo: questa una sequenza dello psicodramma; la seduta lontano dal concludersi con una risposta, rimane sospesa, permettendo nell’intervallo la rielaborazione personale, una riflessione. Il gioco psicodrammatico, luogo di espressione, di regressione e di invenzione, dove tutte le possibilità sono offerte, dove nulla è fermo, tiene posto di spazio transizionale, come lo definisce Winnicott[4], spazio di esperienza fra il vissuto infantile fusionale con la madre, e l’indipendenza affettiva fra tutta la potenza immaginaria e la realtà disilludente: luogo di esperienza della privazione, dell’atto mancato o altro. Tra il tema e il gioco ovvero la rappresentazione si infiltra l’imprevisto, l’ignoto (in-conosciuto), qualcosa che accade. Lo psicodramma, luogo privilegiato per l’emergere dell’inconscio, individua le difese. L’immagine che do di me, quella che do dell’altro, non sono coerenti (non reggono), sono sottomesse alla prova di realtà del gioco.
Le produzioni, le parole e i movimenti, lungo il corso delle sedute sono in un certo senso interrogate dal gruppo. Tutto è dato in qualche modo “a vedere”, salta agli occhi. Il soggetto si sorprende da sé. La riattualizzazione stabilisce un contesto associativo, apre la breccia al rimosso.
Il gioco è al presente: in diretta. Si ha allora un’individualizzazione e una riorganizzazione del soggetto, della sua questione, del suo trauma, del proprio vissuto. Vedere, essere visto, è una delle componenti essenziali dello psicodramma: ciascuno sistema il suo spazio visuale, si pone dei punti di riferimento. Il cerchio fa in modo che si abbracci con un solo sguardo tutto il gruppo così costituito, visto come uno. Immagine piana, sferica che in effetti occupa lo spazio della propria immagine.
Lo vedo vedermi vederlo, (relativo allo sguardo): è il mondo, la realtà. Il gioco in effetti amplifica il vedere sino alla rottura; dal centro dove si svolge non si può vedere tutto; davanti, dietro… degli occhi però vedono ciò che io non posso vedere. C’è un buco, una ferita, un trauma, un dolore con il suo ignoto; si deve allora produrre, costruire, immaginare, parlare e gli altri scambi che seguono daranno un senso che riuscirà a colmare il buco. L’immagine di sé, rimandata dal gruppo, non è quella che a volte ci si aspetta, che si pretende; l’essenziale è che rimandi un’immagine che non potrà essere ulteriormente interrogata, messa in discussione. “Mi avete visto, è tutto quello che vi chiedo.”.
Il gioco è il tentativo di mettere in scena qualcosa di cui non “si vuole sapere”, per fermare l’indicibile, per fermare in qualche modo l’osceno, qualcosa di intollerabile, che per altro si ripete. Cosa ne fa lo Psicodrammatista di quello che vede? Il gruppo evidenzia lo scarto che si verifica tra l’enunciato e il giocato; il terapeuta prende quello è stato detto e lo mette in rapporto con il transfert: è qui che esiste il soggetto, in questo scarto sorto al momento, in ciò che accade in quanto anche inconscio, in quell’imprevisto che sorprende. Quello che si trasmette non è proprio quello che si crede di trasmettere. È in tal caso uno scarto. Lo psicodramma lascia intravedere in effetti un pezzo dell’altra scena, fa circolare dei momenti di desiderio, fa avvenire il possibile.
Rileviamo come, non tutti gli eventi negativi siano definibili come "traumatici". Anche per quanto riguarda la percezione dell'evento, è importante considerare la componente individuale di lettura, soprattutto, per quanto riguarda i "piccoli traumi", ossia l'esposizione a esperienze quali, ad esempio, umiliazioni, invalidazioni e conflitti, caratterizzate da una percezione di pericolo non molto intensa, ma sentite come soggettivamente molto disturbanti.
Concludo riprendendo la riflessione che ha introdotto questa relazione, ovvero sulla traccia che il trauma in tal caso lascia nel passaggio indelebile, il nostro compito è di poter trasformare il dolore e la traccia mortifera in qualcosa di possibile dove l’indicibile della ferita possa ritrovare il senso della relazione e della vita. Qualcosa è celato sotto un velo che in parte non potrà essere fino in fondo svelato, così entrare nel dolore del trauma, nella nientità e superare quel sentimento del nulla attraverso la parola e l’indicibile del dire, permette di poter dialogare di nuovo. La cura ci permette di essere riconosciuti e poter con l’altro che ci sostiene tornare ad aver fiducia nei nostri passi e nelle nostre scelte: nella vita siamo al di qua di questo senso di spaesamento ma anche al di là del trauma accaduto per poterci riprendere in questa nuova soglia dal dolore in una nuova relazione che ci permetta di sentirci vivi e liberi.
«Il desiderio si produce nell’aldilà della domanda perché, articolando la vita del soggetto alle sue condizioni, essa ne sfronda il bisogno; ma esso si scava anche nel suo aldiqua perché, domanda incondizionata della presenza e dell’assenza, essa evoca la mancanza ad essere sotto le tre figure del niente, che costituisce il fondo della domanda d’amore, dell’odio che giunge a negare l’essere dell’altro, e dell’indicibile di quel che s’ignora nella sua richiesta[5]».
LUCIANA LA STELLA
[1]P. Ferrari, Dell’Assenza, Di alcuni tratti della scienza e della realtà nuove: i foglietti della teoria e della pratica, inedito, Del Niente. (Dell’assenza e della “presenza”), II° vol., p.26
[2]P. Ferrari, Homo-Abstractus, Obarrao 2012, p.176, Aforisma n.928
[3]John R. Searle, nato a Denver (Colorado) nel 1932, occupa un ruolo di primo piano nella comunità filosofica internazionale. Formatosi a Oxford, alla scuola dei "filosofi del linguaggio ordinario" come John Austin e Peter Strawson, dove ha insegnato dal 1956 al 1959, John Searle è uno dei maggiori filosofi americani contemporanei. Dalla fine degli anni cinquanta è professore di filosofia del linguaggio e di filosofia della mente all'Università di Berkeley in California. Le sue indagini filosofiche spaziano dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente, all'intelligenza artificiale e alla realtà sociale. L'ambito nel quale il lavoro di Searle si è particolarmente sviluppato è sicuramente quello relativo al concetto di intenzionalità. Nata con Brentano e ripresa poi da Husserl che ne ha fatto un concetto-chiave della fenomenologia, l'intenzionalità rappresenta un tema di attualità nel dibattito filosofico. Edmund Husserl riconosce all'intenzionalità (anche sulla scorta del concetto di significato derivato da Frege) il ruolo di dare (costituire) significato all'oggetto indagato. Intenzionalità non significa, in questo contesto, instaurazione di un rapporto causale ma rappresenta l'atto attraverso il quale l'oggetto assume e mostra significato. Nell'opera del 1983, Intentionality. An Essay in the Philosophy of Mind, John R. Searle si sforza di ricondurre il concetto di intenzionalità all'interno della relazione tra corpo e mente, eliminando il trascendentalismo proprio dell'accezione husserliana.
[4]Donald Woods Winnicott inizialmente abbracciò le concezioni della Klein circa il rapporto madre-bambino, successivamente si discostò dal suo pensiero divenendo meno ortodosso ed entrando nel gruppo degli indipendenti britannici, passando alla storia come uno dei pionieri della scuola delle relazioni oggettuali. La sua concomitante professione di pediatra lo portò ad osservare a lungo i bambini e la loro interazione con la madre, permettendogli così di elaborare originali teorie sullo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino.
[5] J Lacan, Scritti, Vol. II, a cura di G, Contri, Einaudi, Torino 2002, p. 625, § 12