Una possibile deriva traumatica della diagnosi psichiatrica.
Debora Randazzo
È largamente riconosciuta l’idea che la diagnosi serva a migliorare la comunicazione tra professionisti, a omologare il linguaggio tra orientamenti e figure professionali, a esemplificare la narrazione di un paziente quando bisogna presentarlo.
Mi interrogo però sulla reale efficacia simbolica di questo strumento sia quando ci riferiamo al paziente, sia quando il terapeuta/psicodiagnosta/psichiatra/neuropsichiatra pensa il paziente. Sicuramente la diagnosi è maggiormente utilizzata in campo istituzionale ma c’è anche da consiserare che è proprio in quei luoghi che si osserva la cronicizzazione di qualcune diagnosi.
Perché desideriamo parlare dei nostri pazienti in questi termini? Forse dire che un paziente è bipolare, depresso, maniacale, ci offre un senso di sicurezza, e ancor più, per il professionista, può funzionare da contenitore per le proprie ansie e incertezze. Eppure, questa semplificazione rischia di non fare giustizia alla complessità del soggetto che abbiamo davanti.
Quando incontriamo un paziente già così definito nel suo funzionamento, ci esime dal pensare che, se le cose non vanno nel verso giusto, è perché è depresso—che vuoi farci, è così -. In questo modo, rinunciamo, in maniera volontaria e arbitraria, all’ascolto libero che potremmo garantire al paziente che ci chiede di avere un ruolo attivo nella cura. La diagnosi, in questo caso, diventa una barriera che impedisce di accedere a una comprensione più profonda e più dinamica del soggetto
Lacan diceva che il paziente si incontra ogni volta per la prima volta. Se incontriamo un depresso, lo incontriamo sempre come depresso, poiché è pensato come tale dall'altro.
Se il paziente viene pensato come soggetto in divenire, non è mai "definitivo", e il suo modo di presentarsi all'analista non è mai completamente fisso. Ogni incontro è un'occasione per esplorare un aspetto diverso della sua psiche, e ogni parola pronunciata in seduta può avere un significato nuovo e diverso da quello che aveva in passato. Lacan insiste anche sul fatto che l'inconscio è strutturato come un linguaggio e si esprime in modo diverso a ogni incontro. Non si può prevedere esattamente cosa il paziente dirà o come la sua psicologia emergerà in un determinato momento. Ogni volta che il paziente parla, c'è una "novità" nell'incontro, un'apertura in cui l'inconscio si rivela in modo particolare.
In sintesi, con questa frase Lacan vuole evidenziare l'importanza di ogni incontro analitico come momento nuovo, irripetibile e fondamentale per la scoperta reciproca tra analista e paziente, senza mai ridurre la relazione a una routine o a un ripetersi meccanico delle stesse dinamiche.
In questa definizione, il soggetto è ridotto alla sua condizione e la possibilità di vedere oltre la diagnosi è compromessa. La diagnosi, così, rischia di diventare un "significante scollato", che non richiama nessun altro significante se non sé stesso. La catena significante (S1-S2) si spezza, e rimane un singolo "S1" che rimbalza senza connessioni, muto e sordo, impedendo al paziente di esprimere la sua parola soggettiva.
La diagnosi in età evolutiva: fragilità e traumi inconsapevoli
Se la diagnosi ha già un impatto potente sull'adulto, il suo effetto sui bambini e sugli adolescenti può essere devastante. In età evolutiva, infatti, la diagnosi può incidere profondamente sullo sviluppo dell'identità del giovane, che si trova a fare i conti con una "etichetta" che potrebbe cristallizzarsi in una rappresentazione di sé rigida e patologica. In adolescenza, un periodo in cui l’identità è in continua formazione, una diagnosi precoce può precludere la possibilità di esplorare diverse dimensioni di sé, congelando il giovane in un'immagine di sé predeterminata. Piuttosto che aiutare a comprendere i vissuti complessi e le difficoltà del giovane, la diagnosi rischia di rappresentare un ostacolo alla crescita, creando il rischio di una cristallizzazione dell’identità che non si evolve con l'individuo.
Il trauma legato alla diagnosi in adolescenza non riguarda solo il fatto che una "etichetta" venga apposta, ma anche l'effetto che questa etichetta ha sulle relazioni sociali e familiari. Se un adolescente viene definito "borderline", "depressivo" o "ansioso", rischia di essere trattato con una lente distorta dalle persone che lo circondano, comprese le figure familiari, e ciò può rafforzare la sensazione di non essere veramente compreso o di non avere la possibilità di superare la propria sofferenza.
Nel mio lavoro, in particolare nell’ambito dell’età evolutiva, cerco di adottare un approccio che sfida l’idea di una diagnosi come qualcosa di immutabile e definitivo. Invece di seguire un iter che prevedere la somministrazione di un test, la parte di elaborazione e in seguito restituzione con un potenziale diagnosi al paziente, preferisco discutere i risultati sei test favorendo l’emersione di un funzionamento che potrebbe corrispondere a una categoria diagnosticha. Ciò permette di avviare un processo di riflessione condiviso.
Questa modalità ha due vantaggi principali: il primo è che consente al paziente di partecipare attivamente alla costruzione della sua comprensione di sé, e il secondo è che permette di evitare la cristallizzazione di una diagnosi in una "sentenza definitiva". Piuttosto che dire "Lei è un paziente borderline", posso dire "Ecco come lei si colloca in alcuni test, vediamo insieme cosa significano per lei questi risultati". Questo approccio evita che la diagnosi diventi un'etichetta che inizia a definire il soggetto. In questo modo, il paziente non si vede come un "oggetto" di osservazione, ma come un soggetto attivo nella costruzione della sua storia.La diagnosi, quindi, non deve essere una "parola definitiva", ma un processo che evolve con il paziente, un incontro che si ripete ogni volta in modo nuovo. La restituzione immediata dei risultati permette di costruire un dialogo che è più vicino a una relazione autentica, basata sulla comprensione reciproca, piuttosto che su un’imposizione unilaterale di significati.
Il caso di Alice
La mia riflessione nasce anche da un'esperienza personale con una paziente, che chiamerò Alice (nome di fantasia). Alice è una ragazza di 15 anni che ho incontrato in un servizio di Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età Evolutiva. Alice si presenta con un quadro complesso di sintomi: periodi di depressione profonda alternati a fasi di ipomania, durante le quali manifesta comportamenti impulsivi, come l’abuso di alcol, sesso e droghe. È una ragazza che non frequenta la scuola, che vive un'esistenza "sospesa" tra periodi di intensa sofferenza e momenti di apparentemente "piacevole" esaltazione. La sua vita sembra essere dominata dalla paura che il "momento giù" stia per arrivare, mentre il momento “su” la porta a comportamenti distruttivi e autodistruttivi.
Alice, che ha iniziato a manifestare questi sintomi all’età di 11 anni, ha fatto ricorso a farmaci stabilizzanti dell’umore (come il litio), che descrive come il "farmaco perfetto per lei", ma che non riescono a curare la sua depressione di fondo. Durante i colloqui, mi accorgo che Alice sembra completamente cristallizzata nel suo quadro diagnostico: è bravissima a raccontarmi episodi maniacali, pensieri ossessivi, l'ipersessualizzazione e i suoi comportamenti impulsivi, ma fatica a parlare di sé al di fuori della diagnosi. Non sa cosa le piace fare, quali siano le sue passioni, come si vede al di là del farmaco e della terapia. Le cure sembrano venire esclusivamente dall'esterno, dal trattamento farmacologico e dalle strutture che la circondano, ma lei non riesce a sentirsi protagonista del suo cambiamento.
Dietro alla sua sofferenza, Alice porta con sé un passato segnato da esperienze familiari traumatiche: un padre abusante e violento nei confronti della madre, una madre passiva che subisce quotidianamente umiliazioni. Alice ha assistito, impotente, a queste dinamiche, a volte anche direttamente coinvolta, e questo passato ha avuto un impatto profondo sulla sua percezione di sé e sulla sua capacità di gestire le sue emozioni.
Già dal primo incontro, Alice mi chiede apertamente di darle una diagnosi. Le è stato detto che avrebbe dovuto fare i test psicologici, che la sua situazione “richiedeva” una diagnosi. Mi chiede, quindi, di darle un’etichetta, qualcosa che possa spiegare la sua sofferenza e darle un senso di ordine. Tuttavia, io invece di rispondere con una diagnosi definitiva, preferisco restituirle i risultati dei test in modo che ci sia la possibilità di elaborare autonomamente il significato di ciò che emerge da quella restituzione. Non si tratta di negare l’utilità diagnostica, ma di far sì che la diagnosi non diventi una prigione che cristallizza il suo senso di sé. Da questo si potrà capire se Alice sarà in grado di fare emergere la sua soggettività anche partendo da una diagnosi psichiatrica come “stampella” o se riuscirà a cogliere e prendersi cura dei suoi blocchi e fragilità in termini di chi “sono io”?
Bibliografia.
- Lacan, J. (1964), Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi.