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Dott. Angelo Villa

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Il narcisista patologico: dal vuoto alla violenza

2024-03-24 00:00

di Benedetto Genovesi

FORT-DA numero 2/2024,

Il narcisista patologico: dal vuoto alla violenza

di Benedetto Genovesi

Tutti gli altri animali che sono in terra, 
o che vivon quieti e stanno in pace, o se vengon a rissa e sin fan guerra, 
tuttavia alla femmina, il maschio non la face: l’orsa con l’orso al bosco sicura erra; la leonessa appreso al leon giace; col lupo vive la lupa sicura; né la iuvenca ha del torel paura!

 

Ludovico Ariosto 
Orlando furioso
1516   
 

Tuttavia, talvolta l’essere umano può arrivare a commettere atti di violenza che non sono si verificano negli altri esseri viventi né negli animali di specie diversa dalla nostra. La spiegazione va ricercata in aspetti psicopatologici di tipo narcisistico, in cui naturalmente la cultura modifica la natura e viceversa.
Se nella relazione primaria, la madre non entra in contatto con il bambino, con le operazioni di contenimento corporeo e di rispecchiamento empatico, non può svilupparsi il processo di soggettivazione. Senza oggetto non ci può essere un soggetto. 
In “Introduzione al narcisismo” (1914), Freud afferma che la libido narcisistica ha, con gli investimenti d’oggetto, la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboide ha con gli pseudopodi che emette e poi ritira. Il narcisista è paragonato ad un’ameba. Un’ameba è un’essere unicellulare chiuso, il suo corpo è privo di scheletro, emette e ritira pseudopodi che sono usati per cibarsi e per strisciare sul substrato. Sono investiti i propri pseudopodi e non l’oggetto. Il narcisista ricerca sè stesso, ciò che egli è o ciò che egli vorrebbe essere (ideale dell’Io). C’è un rapporto di idealizzazione di sè e svalutazione dell’altro. Possiamo dire che, in realtà, c’è un vuoto narcisistico, dato dalla mancanza di relazione con un oggetto. 
La mente umana, infatti, nasce nella relazione con l’oggetto d’amore. È fondamentale avviare un processo di soggettivazione e quindi sviluppare una capacità di pensare ed elaborare gli stati affettivi, che si generano nella relazione, per rendere possibile la capacità di sentire empaticamemte i sentimenti dell’altro. 
Melanie Klein in “Invidia e gratitudine” (1957) afferma che nella relazione primaria, l’amore per l’oggetto buono, mitiga l’odio e l’angoscia, ed è essenziale per lo sviluppo mentale. Ci deve poter essere una buona relazione con un oggetto e questo oggetto buono deve poter essere introiettato, così attorno a questo oggetto buono introiettato, si può cominciare a costruire uno scheletro, ovvero un soggetto che deve potere nascere e crescere (processo della soggettivazione).  
Ma se questo processo è inceppato nelle prime fasi dello sviluppo, la possibile conseguenza è che la mente rimanga in uno stato di immaturità narcisistica e che quindi non sia possibile sviluppare la relazione di un soggetto con la soggettività dell’oggetto.
Come dice ancora Freud in “Introduzione al narcisismo” (1914) l’identificazione narcisistica prende il posto della relazione. Non potendo introiettare l’oggetto buono e quindi non potendosi relazionare con tale oggetto, allora avviene l’identificazione narcisistica con l’oggetto. Il soggetto s’identifica con l’oggetto, che d’ora in poi appartiene al soggetto, l’oggetto diventa un possesso del soggetto. 
Per cui il Sè è privo della possibilità di interagire con l’Altro da Sè e rimane immaturo, incompiuto. Ovvero il Sè non si può sviluppare, sarà privo di coesione e di continuità, e può sperimentare l’angoscia narcisistica di disintegrazione, provocata dal processo di scollamento delle funzioni interne del Sè.
C’è un soggetto che non ce la fa a nascere e crescere. E se il soggetto non ce la fa a reggersi in piedi e a camminare con le proprie gambe, allora ha bisogno di un oggetto che gli faccia da scheletro per consentirgli di stare in piedi; e quindi se l’altro se ne va, il soggetto crolla e sprofonda nel buio e nel nulla. 
In “Lutto e melanconia” (1915), Freud ci fa notare come sia ostacolato il lavoro del lutto, per il narcisista. Se non c’è relazione con l’oggetto, non se ne può fare il lutto, nel momento in cui l’oggetto non c’è più e non si può accettare la realtà. In tale condizione, siccome è avvenuto il crollo, accade che l’odio prenda il sopravvento e si metta all’opera contro l’oggetto, a cui l’Io si è identificato. 
Come ci fa notare Melanie Klein (1940), negli stati maniaco-depressivi in condizione di lutto, conseguenti alla perdita dell’oggetto, normalmente anche lo struggimento per l’oggetto d’amore perduto comporta dipendenza, ma si tratta di una specie di dipendenza che opera da stimolo alla restaurazione e alla preservazione dell’oggetto. Al contrario di quella retta dal senso di persecuzione e dall’odio (Klein, 1940). Nel narcisista, infatti, si può instaurare una dipendenza patologica che può scatenare odio e sadismo contro l’oggetto perduto. È un odio disimpastato, freddo, distruttivo, che non conosce l’amore. Qui, siamo nel regno di Thanatos (pulsione di morte), dove non c’è spazio per Eros (pulsione di vita). Le due pulsioni sono disimpastate, l’affetto non può essere legato a una rappresentazione di pensiero. In tale condizione, in cui c’è una perdita non vissuta e un lutto non elaborato, viene meno la capacità di pensare e simbolizzare, tutta la vita mentale rimane soffocata. Non c’è la possibilità di accedere alla posizione depressiva e di soffrire il dolore per la perdita. E il dolore non vissuto può esplodere in agiti violenti non pensati e non pensabili. Se non è possibile percepire ed elaborare il dolore provocato dall’assenza dell’altro, l’altro diventa un nemico minaccioso che attiva angosce paranoidi. Da qui, il bisogno di possedere e controllare l’altro, affinché l’oggetto, che è mio, soddisfi i miei bisogni, come vediamo in alcuni rapporti di coppia. Siamo nell’area di forme di legami primitivi, di natura arcaica, di possesso cannibalico dell’altro, sino ad arrivare alla violenza fisica, proprio perché non si sono verificate le condizioni psichiche per tollerare l’assenza dell’altro. Si arriva così a rinnegare la libertà soggettiva dell’altro, si tenta di imprigionare l’oggetto. 
L’uomo sadicamente può diventare carceriere, e a volte, la donna masochisticamente, può accettare questa prigionia sino a rinnegare, non riconoscendola, la cattiveria dell’uomo, instaurando così una dinamica vittima/carnefice, come vediamo nel recente film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. S’impone una posizione narcisistica di possesso, basata fondamentalmente su una ideologia patriarcale, che vede la donna come oggetto di possesso dell’uomo. L’uomo (che nel film è rappresentato come meschino, inferiore e violento) tenta di imprigionare la donna (in una prigione di proprietà), dalla cui libertà (della donna) si sente minacciato, proprio perché non ha uno scheletro per reggersi in piedi. E la violenza psichica, caratterizzata da un clima di sudditanza e di terrore, può sfociare anche in violenza fisica.   
Ma è chiaro che la dinamica può sussistere anche a ruoli invertiti. La donna narcisista è manipolatrice e può agire una spietata violenza psicologica.
In ogni caso non c’è empatia. 
Il Sè del narcisista è una struttura incompiuta, come un edificio rimasto allo stato rustico, e allora non c’è una casa che possa essere abitabile, che possa accogliere la vita e che possa essere vissuta. Nell’interazione (non relazione) della coppia, l’altro serve per tenere unito il proprio Sè, per colmare tutte le lacune del Sè, per fare da scheletro e allora la sensazione di mancanza non può essere tollerata ed è fortemente angosciante. Qui, la violenza nasce nel tentativo di cancellare l’angoscia che non può essere né percepita né tollerata né affrontata, anche a costo di cancellare la libertà dell’altro. E si può arrivare a cancellare anche l’esistenza dell’altro, come avviene nel femminicidio, in cui si elimina fisicamente la donna.
Nel momento in cui la donna potrebbe volere scappare dalla prigionia e recuperare la libertà, l’uomo potrebbe tentare di cancellare l’onta del tradimento nei confronti della legge del possesso (se te ne vai, non sei più mia e allora devi essere punita con la pena di morte). Inoltre, l’uomo potrebbe non tollerare di mettersi in contatto con le proprie fragilità narcisistiche e allora (nel tentativo di passare da una posizione passiva di chi è abbandonato, ad una posizione attiva di chi punisce) potrebbe reagire con la violenza, sino al femminicidio. 
Ciò può avvenire perché l’uomo narcisista non è in grado di essere empatico. 
Lo vediamo anche nel recente film di Woody Allen, “Un colpo di fortuna”, in cui viene, magistralmente, rappresentato l’identikit del narcisista patologico. Il protagonista si sente profondamente e inconsciamente inferiore e tende, tramite identificazione proiettiva, a fare sentire inferiori gli altri, a sminuire la vittima, agendo così una violenza psichica.

A dispetto del monito di Giuseppe Mazzini (1860):
Amate e rispettate la donna. Non cercate in essa un confronto, bensì una forza, un’ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità, infatti non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con un’educazione diseguale e una perenne oppressione delle leggi, quell’apparente inferiorità intellettuale, della quale oggi qualcuno potrebbe argomentare per mantenere l’oppressione!

Qualcuno potrebbe argomentare per mantenere l’oppressione e infatti vediamo come la moglie viene denigrata e isolata dalle sue amicizie. Non c’è affetto, non c’è rispetto, bensì solo un mondo narcisistico perfetto, in cui c’è l’idealizzazione del Sè e la svalutazione dell’altro. 
Il protagonista è manipolatorio, vive nell’apparenza e nella menzogna, è abitato da un profondo e inconscio senso di impotenza, mascherato da un apparente senso di onnipotenza, che lo porta a sentirsi superiore agli altri. Lui è sadico, cinico, emotivamente freddo e distaccato. Non ha empatia e non entra in relazione con gli altri, anzi gli altri sono usati come pubblico non pagante che deve applaudire, approvare e lodare le grandi gesta e i grandi poteri e i possedimenti e i trofei del nostro eroe narciso. Il narcisista patologico tende a esibire le sue grandiosità e avversa la possibilità di entrare in contatto con se stesso e di arrivare ad una conoscenza di se stesso. Anzi la possibilità di entrare in contatto con le proprie angosce e le proprie fragilità e di conoscersi profondamente è la cosa che maggiormente lo terrorizza. La percezione di sè non avviene dall’interno, bensì dallo sguardo che su di lui arriva dall’esterno, per cui ha bisogno di esibirsi e di essere ammirato e lodato. Ma non potendosi conoscere, non si può sperimentare dal di dentro e viceversa non potendosi sperimentare dal di dentro non può conoscersi intimamente. 
Ogni cosa passa attraverso il calcolo e freddi ragionamenti di convenienza, di ciò che conviene fare per apparire migliore e nascondersi dietro una maschera di finta perfezione. Anche nei rapporti di coppia non c’è un vero sentimento verso l’altra persona, ma un senso di possesso e di controllo, la partner è un trofeo da mostrare agli altri, come fosse una preda di caccia. Naturalmente, no, non è scalfito dai sentimenti, non prova passioni, né compassione, né rimorso, né empatia, né ha una coscienza morale, perché appunto si sente invincibile. Chi dà fastidio deve essere eliminato. 
La violenza, in entrambi i sessi, come dice Recalcati (2019), è il rifiuto della femminilità.
La femminilità è ciò che c’è ma non si vede, è energia, è erranza, mancanza di regole, di limiti e di confini, di localizzazione, di coordinate temporo-spaziali. Questa indefinitezza della mancanza, attiva un desiderio troppo forte, che è indefinibile e spaventa l’uomo e, a volte, anche la donna stessa. La femminilità è un atto creativo, ma anche molto incerto e indefinito, per questo ci potrebbe essere il rifiuto della femminilità, anche nella donna. Di fatto, le donne violente sono tutte donne che non sono in grado di appropriarsi della propria femminilità, sono donne falliche, narcisiste, che tentano di assumere un atteggiamento di potere, di controllo e di possesso. 
Ma anche l’uomo potrebbe rifiutare la propria femminilità e non riuscire ad integrarla nella propria personalità. 
E allora ci si rinchiude, uomini e donne, in un regolamento che dia illusione di protezione e sicurezza. Anche se è profondamente vero che la femminilità, per sua natura, non può essere rinchiusa dentro un regolamento e nemmeno dentro un possesso e una proprietà. La donna non è di nessuno, è libera per sua natura, in contatto intimo con la pulsionalità, è attivata dalla mancanza, ed ha bisogno di sentirsi amata e protetta. Anzi a partire dalla figura paterna, l’uomo dovrebbe avere, per natura, una funzione protettiva nei confronti della donna.
Uomini e donne s’incontrano perché la sregolatezza delle donne ha bisogno di regole per non disperdersi; mentre le regole dell’uomo hanno bisogno della vitalità della sregolatezza, altrimenti non hanno più motivo di esistere. 
La violenza maschile nasce dall’angoscia di disintegrazione ed è un atto d’intolleranza nei confronti della femminilità che è così imprevedibile, qui, la violenza nasce dall’impossibilità di vivere il dolore dell’assenza e della mancanza, connesse con l’angoscia di disorientamento e di disintegrazione. 
La violenza femminile nasce dall’impossibilità ad appropriarsi della propria femminilità, che diventa una minaccia, rischiando di fare sprofondare la donna nell’angoscia di dispersione. 
L’uomo, per essere uomo, deve riuscire ad accettare ed integrare, nella propria personalità, la propria femminilità, riuscendo così a tollerare ed amare la femminilità della donna.    
Sarebbe bello che uomini e donne possano appropriarsi reciprocamente dei propri aspetti di femminilità e di virilità (sia degli uomini che delle donne) e incontrarsi in una danza reciproca, che possa dare vita ad una relazione d’amore.
L’amore, infatti, è un’altra cosa, è rispetto reciproco, è relazione tra due soggetti pienamente liberi, implica il sentimento della mancanza quando l’amato non c’è, implica il desiderio di stare insieme con l’amato, di condividere esperienze e nutrire la relazione, in cui possa prevalere Eros come portatore di pulsione di vita.

Bibliografia

Allen W. Un colpo di fortuna. Dippermouth. Francia, Regno Unito. 2023.

Ariosto L. (1516). Orlando furioso. Mondadori. Segrate (MI). 2022.

Cortellesi P. C’è ancora domani. Wildside, Vision Distribution. Italia. 2023.

Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. OSF. 7.

Freud S. (1915). Lutto e melanconia. OSF. 8.

Klein M. (1940). Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi. In Scritti (1921-1958). Bollati Boringhieri. Torino. 1978.

Klein M. (1957). Invidia e gratitudine. Giunti. Firenze. 2012.

Mazzini G. (1860). Dei doveri dell’uomo. Rizzoli. Milano. 2010.

Recalcati M. Lessico amoroso. La violenza. RAI. 2019.

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