La nozione di malattia (e a maggior ragione quella di trauma), intese spesso come un’anomalia fisica o mentale, sono il prodotto di una cultura biomedica, socialmente e storicamente costruita, che tende a leggere la realtà in termini dicotomici e oppositivi (salute/malattia, normale/anormale, sano/patologico) e, in quanto tali, limitati. Al contrario, un’analisi antropologica critica induce ad assumere un approccio più dialettico e flessibile, che scardina il rigido paradigma cartesiano degli opposti e mette in evidenza quanto sia la malattia che il trauma corporeo o mentale siano innanzitutto dei fenomeni umani e, in quanto tali, espressione complessa e multiforme della vita.
Il ruolo dell’antropologia nell’ambito della salute fisica e mentale
In questa logica appare quindi necessario decostruire sia il discorso medico-scientifico che anche quello religioso (presente in molte culture nell’ambito delle relazioni fra il male e la magia) al fine di far emergere come lo stato di malattia, l’essere malati, e la prassi della guarigione, quindi il tornare a essere sani, si costituiscano sempre in precisi contesti storici e finanche politici, quindi in luoghi di negoziazione e di mediazione fra i diversi interessi istituzionali dello stato, della chiesa o del mondo sacro in genere, della medicina, della psicoterapia, della psichiatria e degli attori sociali stessi, da un lato i malati, dall’altro i guaritori: siano essi medici, terapeuti e operatori sanitari in una realtà sociale caratterizzata da un substrato scientifico, siano essi sciamani, sacerdoti, maghi o intermediari con realtà nascoste, metafisiche, in-individuabili.
In occidente, anche nell’analisi dei traumi psicologici, spesso il discorso medico-terapeutico resta ancorato agli effetti della malattia (come sintomo “di un male” o “del male”) e non alla persona nella sua totalità. Questo riduzionismo fa figurare il trauma come un malessere a sé stante, dimenticando quell’unione esistente fra corpo e mente e tralasciando anche il fatto che ogni persona è sempre un elemento della società in cui vive e della cultura che lo nutre e che ne determina le azioni. Concepire invece un trauma e i suoi effetti anche sul corpo nella sua generalità non come una variazione della dimensione della salute bensì come una nuova dimensione della vita[1] consente di individuare quattro momenti che la caratterizzano: il primo è il momento psico-organico, in cui vi sono tutte le alterazioni che colpiscono l’organismo e la psiche del malato; il secondo è il momento sociale, in cui l’attenzione si sposta sui fattori sociali nella configurazione del quadro clinico; il terzo è il momento storico che, fondendosi con i primi due momenti, si riferisce all’influenza che la situazione storica o socio-culturale esercita sulla genesi della malattia; infine l’ultimo momento è il momento personale, in cui l’essere umano prende coscienza e quindi personalizza da un punto di vista soggettivo il suo rapporto con la malattia o il trauma[2].
Il pensiero di Marc Augé individua nell’analisi della malattia e delle sue manifestazioni una opportunità per approfondire la relazione simbolica tra l’individuo e il suo gruppo sociale. Secondo Augé «l’ipotesi è che ordine sociale e ordine biologico siano governati dalla stessa logica, che esista, in una società data, una sola griglia di interpretazione del mondo applicabile sia al corpo individuale che alle istituzioni sociali. Più esattamente, che se esiste una logica, è da essa che dipendono contemporaneamente la costituzione del corpo e le istituzioni del sociale»[3]. D’altronde, può esistere una società all’interno della quale il male o le sue espressioni, piuttosto che gli individui colpiti da un trauma, non acquistino una dimensione “sociale” travalicando il lato personale, individuale, intimo?
In questi termini e in questa logica il concetto e il senso del male, ricondotto all’evidenziarsi di un evento traumatico (individuale e insieme sociale), vengono piegati alle logiche dell’ordine dell’immaginario sociale. Il trauma, come qualsiasi malattia e come evento elementare, viene inoltre connesso a vincoli simbolici inerenti a schemi interpretativi che, organizzati anteriormente all’evento, ne costituiscono il presupposto, per dargli un posto nel mondo e determinarne gli orizzonti di senso. Il rito sembra servire proprio a questo scopo: «L’apparato rituale delle religioni sembra sia chiamato più a comprendere e orientare l’evento che a costituire una mediazione del senso della vita; questa può trasparire indirettamente agli occhi dell’osservatore che studia le costanti e le dominanti del sistema rituale: ma non ne costituisce l’oggetto primario»[4]. L’antropologia medica e della salute, branca di una disciplina che in Italia sembra muovere in alcuni contesti ancora i primi passi, guarderà agli effetti del decorso di una terapia piuttosto che al semplice raggiungimento del benessere fisico. Diverso è il modello di approccio verso il male, altrettanto diversi sono i modelli di approccio verso la terapia e verso l’obiettivo della “guarigione”.
Le componenti culturali, che contribuiscono a dare senso alla salute e alla malattia di un gruppo sociale o di un individuo, differiscono d’altronde da una cultura all’altra e talvolta anche all’interno di uno stesso contesto geografico, fra “culture egemoni” e “culture subalterne”[5]. Differisce il modo in cui il corpo fisico di un individuo viene percepito e curato, ma questa differenziazione sarà fortemente influenzata dal corpo sociale in cui l’individuo si iscrive. Nonostante un trauma, proprio come una qualunque malattia, sia una componente con carattere universale, le idee attorno alle pratiche per la salute mutano e le rappresentazioni di questa nelle varie culture sono differenti. «Riconoscersi malato o riconoscere una malattia sono fattori strettamente condizionati dal sistema culturale di riferimento»[6].
Per comprendere come differenti approcci culturali si intersechino nell’esperienza del trauma è necessario considerare il «sistema complesso della vita umana», come affermato dall’antropologo Vincenzo Padiglioni[7]; questo si compone di cinque “sistemi” fra loro interagenti: il sistema biologico, che comprende i processi biochimici che avvengono all’interno del corpo umano; il sistema della personalità, che si compone dei processi percettivi, emotivi e cognitivi dell’uomo; il sistema culturale, che si costituisce dei modi di pensare, agire e ordinare la realtà di ogni gruppo umano; il sistema sociale, e cioè le relazioni osservabili tra individui e gruppi sociali; e infine il sistema ecologico, che comprende l’ambiente naturale come è stato modellato dall’uomo. Il ruolo centrale della cultura fa sì che, anche nell’esperienza del dolore, del trauma, insomma del male, questa funzioni da tessuto connettivo dei vari sistemi e che questi ultimi agiscano sul livello culturale innescando i processi di trasformazione e adattamento dell’individuo alla pluralità dell’esperienza del suo gruppo sociale.
Il trauma dei migranti e le problematiche connesse
all’interazione fra culture diverse
Una conferma dell’integrazione sistemica di questi vari elementi ci viene dall’osservazione delle differenze culturali, per esempio nell’ambito delle cure necessarie da una persona che vive nel “nostro mondo” ma proviene da un’altra realtà socio-culturale, come accade per gli immigrati già residenti nel nostro territorio o, ancor di più, per i migranti che, fra partenza dalla loro terra e arrivo nella nostra, vivono quanto meno tre importanti traumi: il primo è quello legato al volere o dovere lasciare la propria terra d’origine per motivi economici, a causa di guerre e conflitti o per motivi legati alla drammaticità di eventi climatici; il secondo è quello di dover affrontare un viaggio complesso che di certo non è esso stesso scevro di pericoli, sia se ci si affida a una carretta del mare, sia se si va dietro a mercanti di uomini che guidano gruppi eterogenei per centinaia di chilometri lungo sentieri dove la natura e gli stessi uomini sono pronti a inghiottire spesso ogni speranza; il terzo trauma è infine all’arrivo, sempre che tutto sia andato bene; qui molto spesso le speranze della vigilia, alimentate artatamente dai mercanti di uomini, si scontrano con una realtà assai più dura e complessa per via della burocrazia, delle leggi di accoglienza o di respingimento, della capacità di adattarsi a una cultura del tutto diversa, con proprie norme, una diversa lingua, e tutto un mondo di regole e prassi di vita sconosciute.
Anche superando tutte queste difficoltà, e quindi anche nel caso del raggiungimento di un equilibrio di vita da parte del migrante che in qualche modo dopo alcuni anni riesce a integrarsi nella nuova realtà, il sopraggiungere di una malattia innesta subito una percezione ben più grave fra il senso che egli riesce a dare al suo male e la sua stessa richiesta di cura nel momento in cui all’improvviso si trova a dover essere accudito dal nostro sistema sanitario. Il trauma, l’ennesimo trauma, che ne deriva va considerato sotto vari aspetti: prima di tutto proprio da un punto di vista culturale, date le differenze dei rispettivi modelli culturali che stanno alla base dei sistemi sanitari (il nostro e il loro); quindi da un punto di vista socio-economico, dato che emergono (e vanno in ogni caso individuate) le cause del disagio nei comportamenti individuali e collettivi generati dalle altre socio-culture; ma anche da un punto di vista introitante che tende a far sì, acriticamente, che gli immigrati vengano pensati e rimodellati come soggetti nuovi da inserire nel sistema sanitario occidentale come se questo fosse “ovvio”, direi “naturale”, cosa che invece non è.
In concreto, i sentimenti e i sintomi descritti dai migranti quando si presentano in un ospedale o davanti a qualche operatore sanitario, al di là delle difficoltà linguistiche che ostacolano la comprensione reciproca, sono spesso ambivalenti: l’avventura della migrazione si costituisce di dubbi e incertezze che accrescono il senso (oggettivo) del dolore, della malattia; riaffiorano i traumi della stessa migrazione, il sentirsi strappato dalla propria terra, dalle proprie origini, dalla propria storia culturale, spesso anche dai propri affetti; sono tutti traumi che si aggiungono spesso a un altro trauma mai emerso, magari nascosto nell’inconscio e consolidatosi nel tempo, ma in grado di determinare una condizione di fragilità ulteriore che acuisce per questi soggetti il senso del male e può portarli anche ad azioni estreme verso gli altri o verso sé stessi.
Non è un caso se fra i migranti ci sia una porzione elevata di soggetti che soffrono di malattie psichiche o psicosomatiche legate allo “stress da transculturazione”, cioè a quella situazione di pressione psicologica a cui l’individuo estraneo al mondo in cui vive (anche se è stato il mondo da lui in qualche modo scelto emigrando) è sottoposto dopo che abbandona la sua terra, spesso anche la sua famiglia e sicuramente la sua cultura. A questo stress si aggiungono poi nella quasi totalità dei casi la fragilità economica, le cattive condizioni abitative e l’emarginazione sociale a cui è sottoposto dalla comunità “accogliente”. Il male dell’immigrato è quindi, prima di tutto, spesso “il male dell’immigrazione” dovuto alla sua abituale esclusione sociale, dettata dalla precarietà materiale derivante a sua volta dalla povertà economica e relazionale, che contribuiscono a determinare a loro volta un più ampio e complesso processo di emarginazione. Ogni malattia, anche banale, sorta in questo contesto diventa un male ben più grave da affrontare rispetto a un nativo o a un residente da generazioni: insomma un trauma vero e proprio.
La necessità di un approccio diverso, tipico della “medicina delle migrazioni”, ha quindi lo scopo di mettere in una prospettiva di salute transculturale la richiesta di aiuto di coloro che manifestano culture diverse dalla nostra, richiedendo una capacità di interazione tra il sapere scientifico e la dimensione sociale entro cui si sviluppa la percezione della loro malattia. «Adattamento, disadattamento, alienazione e anomia rappresentano diversi livelli sociali che conducono alla compromissione della salute»[8]. Diversamente dai residenti, spesso è anche il diverso status giuridico dei migranti il primo ostacolo che questi devono superare per affermarsi nella società in quanto “soggetti” e non “oggetti”; questa situazione espone la loro psiche a ciò che viene definito come “patologia della transizione”[9], cioè a forme di sofferenza che prendono vita a seguito di shock culturali o alle cosiddette “sindromi di sradicamento”.
L’incertezza del loro essere può provocare gravi disturbi di identità e favorisce la nascita di ulteriori sindromi e manifestazioni di disagio in cui la dimensione medico-corporea e quella psicopatologica appaiono fra loro interagenti in modo inestricabile tanto da far sì che il corpo veicoli chiaramente, insieme al malessere fisico, anche un disturbo psichico. Nel contempo, le differenze culturali nell’espressione dei sintomi pongono le basi per mettere spesso in crisi il modello occidentale di interpretazione dei sintomi e di elaborazione di una terapia, dato che il nostro modello sanitario si fonda nella razionalità clinica e interpreta i sintomi come manifestazioni di una sottostante realtà biologica. Riconoscere la rilevanza clinica degli aspetti culturali e sociali nella vita di ogni paziente è fondamentale perché restituisce non solo la semantica della malattia ma soprattutto la sua dimensione interpretativa[10].
Sempre in tema di medicina delle migrazioni, va aggiunto che il momento della narrazione da parte del paziente, e quindi della trasformazione di segni di disagio in sintomi, è un processo mediato culturalmente; quindi nel corso dell’incontro terapeutico è immaginabile che il linguaggio sintomatologico del paziente non possa (e non debba) essere affrontato solo attraverso una banale traduzione linguistica, ma all’interno di un sistema simbolico culturale differente, nel quale per esempio il riferimento a organi del corpo (come cuore, cervello, stomaco o fegato) possono essere simboli culturalmente codificati che esprimono esperienze sociali diverse da quelle a cui noi siamo abituati (e a cui il sanitario occidentale è abituato). E pertanto «riconoscere la differente prospettiva del paziente vuol dire riconoscere la natura culturale delle pratiche biomediche, le quali operano un processo di selezione che rischia spesso di offuscare delle dimensioni che potrebbero essere fondamentali nel processo diagnostico-terapeutico»[11].
L’attività diagnostica non deve basarsi quindi solo sulla spiegazione del sintomo tramite le parole, ma deve rappresentare un’opera di ricostruzione del mondo della vita del paziente, restituendo senso alla personale esperienza del suo dolore, così solo destrutturando il suo senso del male. Né ci si può dimenticare che mai come nel dolore l’uomo è in grado di accorgersi della falsità delle parole di conforto dette da chi gli sta accanto, laddove ci si fermi a una formale presenza e non vi sia anche autentica partecipazione: anzi, proprio in questi casi il malato scopre di essere solo col suo male, amplificandone gli effetti.
L’antropologo può essere ormai chiamato ad affrontare la complessità dei processi politico-culturali che coinvolgono i corpi e le istituzioni sanitarie, il rapporto fra individuo e operatore sanitario (medico, psicoterapeuta, infermiere, ausiliario), ma anche le relazioni fra salute degli individui e dei gruppi sociali e diseguaglianze, senza tralasciare, come già evidenziato, i processi terapeutici e le strategie di cura, che ovviamente possono diventare attività o forme ostili di relazione nei confronti di persone che non accettano le metodologie abituali della nostra medicina o il rapporto medico-paziente promiscuo. Il classico esempio è quello delle donne di cultura islamica che non accettano, se non costrette, la presenza accanto a loro di medici e infermieri maschi: l’antropologo dovrebbe collaborare col personale medico e sanitario in questi casi per renderli consapevoli del grande valore attribuito dai musulmani al pudore fisico, che comunque spinge non solo le donne ma anche gli uomini a non esporre fra estranei la propria nudità; ma vi sono anche culture per le quali la persona deve mostrare, rispetto al proprio corpo, un concetto quasi di sacralità, per cui nessuna parte del corpo può essere manipolata a capriccio o lesa “illecitamente” nella sua integrità, se non rischiando altrimenti un ulteriore trauma.
In tal senso l’antropologia offre anche al personale e alle professioni della sanità in senso lato una diversa chiave di interpretazione delle proprie abituali metodiche operative, in un’ottica di rilancio del dialogo fra antropologia, psicologia e medicina, sfruttando anche le ricerche e gli studi che si sono occupati nell’ambito della tradizione etnografica dei diversi sistemi di approccio locale al problema della malattia, della cura e della guarigione, a partire dalle altre grandi tradizioni culturali, come quelle della medicina cinese, di quella indiana o di quella giapponese, per giungere perfino a ridurre, laddove possibile, in caso di cura di pazienti di tali stati in ospedali occidentali, le distanze fra le forme di cura da loro richieste in base alla loro medicina tradizionale e quelle offerte dalla medicina occidentale, magari coniugandone tra loro gli esiti in modo sincretistico.
La diversità come trauma
Sappiamo bene che col termine “ambiente” non possiamo solamente identificare ciò che ci circonda da un punto di vista naturale, ma anche quello che noi viviamo come esseri sociali e non solo biologici: ambiente significa anche interazione con gli altri, relazioni con gli altri, aperture verso gli altri, paure degli altri, o semplicemente angoscia dell’esistenza degli altri (per esempio i diversi, i portatori di handicap, i migranti, ecc.). Come acutamente nota Alfredo Anania, «molto spesso il disagio, l’insidioso stress cronico o il disturbo psicosomatico hanno origine principalmente dal contatto con quelle tante persone che giornalmente turbano quello che possiamo chiamare “l’ambiente psicologico dei rapporti interpersonali” […]. Tutti sanno bene che la propria e l’altrui vita non è statica ma dipende dal “campo” psicologico (relazionale, familiare, sociale) creato dall’interagire tra gli esseri umani, ma pochi in verità considerano come una persona possa cambiare con la diversità del luogo, delle situazioni e delle persone incontrate; così, variando il contesto di vita, l’individuo può scoprirsi come una persona diversa»[12]. La considerazione che emerge alla fine è che spesso desideriamo il cambiamento spontaneo degli altri, o cerchiamo addirittura di modificarne il comportamento, ma dimentichiamo che in realtà a cambiare possiamo essere solo noi stessi; tuttavia, «nell’incontro con l’altro potremmo certamente scoprire che solo la nostra trasformazione comportamentale ha il potere di cambiare il nostro rapporto con l’altro»[13].
Tuttavia, è la sfera stessa dei comportamenti abituali, non solo quella delle prospettive patologiche come socialmente decodificate, a essere prima di tutto toccata da quest’incontro con gli altri, in base a quel processo imitativo che inconsciamente e consciamente ci porta a dovere integrarci per far parte di un gruppo sociale seguendone linguaggi espressivi, comportamentali, simbolici, rituali, in una validazione di sé che passa attraverso la mutua accettazione di regole, norme e codici. Ora, se muta, a un certo punto dell’esistenza, il contesto socio-culturale dell’individuo, per esempio a causa del suo sradicamento dall’ambiente sociale in cui è cresciuto e di cui ha quasi istintivamente assorbito le regole e le logiche comportamentali, la sua psiche si trova costretta a rielaborare fin dalla base quelle regole che ne hanno determinato fino a quel momento la vita, e questa trasformazione non è indolore, in nessun caso, né quando lo sradicamento da una cultura-Paese d’origine avviene su base volontaria (come per la ricerca di un lavoro o di un contesto migliore), sia a maggior ragione quando ci si trova davanti a problematiche legate alla sfera della salute e della sopravvivenza, per esempio quando si è vittime di violenze, guerre, catastrofi naturali, carestie, situazioni tutte che costringono le persone a trovare un altro luogo in cui trovare asilo per sfuggire ai pericoli che comprometterebbero la propria stessa esistenza e ricreare quindi altrove le condizioni di vita sociale che sono costrette a lasciare contro la loro libera volontà. Il problema delle migrazioni inizia da questa consapevolezza, contribuendo a complicare quell’equilibrio fra corpo e mente che già all’origine può già vacillare per patologie latenti o manifeste.
Che le migrazioni costituiscano un problema assai complesso da vari punti di vista (politico ed economico, ma ovviamente anche antropologico, sociologico e psicologico) è evidente anche se esaminiamo la nostra incapacità sociale di accettare senza paure il diverso, l’estraneo, soprattutto se incapace di adeguarsi ai nostri standard e di accettare a sua volta la nostra “normalità”; e questo sempre che l’atteggiamento non sia solamente di puro rifiuto, discriminazione razziale e quindi ostracismo. Già qui appare evidente come la percezione fisica alimenti la nostra percezione psichica e alimenti a livello inconscio angosce e paure, collegando per esempio una diversità dei tratti somatici o del colore della pelle a fatti prettamente culturali come possono essere l’espressione linguistica o tutte quelle altre espressioni simboliche (il modo di vestire, di approcciarsi agli altri, di cosa e come mangiare, ecc.) che fanno riferimento invece alla sfera socio-culturale. Tuttavia questa esperienza è ambivalente: non si manifesta solo nella nostra abituale incapacità di accettare accanto a noi chi è diverso da noi; vale anche per gli “altri”, con le loto paure, i loro drammi storici e i loro traumi esistenziali, che ne hanno magari devastato il corpo e la mente, soprattutto se sfuggono a guerre e genocidi da Paesi dove hanno anche lasciato parenti e amici per tentare di giocare il loro futuro alla roulette di un altro diverso tavolo, di cui magari non conoscono nemmeno le regole (diverse) del gioco.
Come acutamente nota Isabelle Stengers, «gli immigrati non hanno come prima funzione quella di costituire per noi uno specchio deformante, in cui il volto gentile dei nostri ideali di giustizia, libertà, razionalità si mette a fare smorfie in modo sinistro. Non sono là nemmeno per ricordarci le nostre responsabilità nelle miserie del mondo, per richiamarci all’esercizio di una solidarietà effettiva. E non sono là per offrirci il ricordo di ciò a cui avremmo voltato le spalle […]. Non sono là per “noi”. Vengono da un altrove, e per ragioni che appartengono a questo altrove»[14]. Ma il loro trauma è anche il nostro trauma: loro ne portano spesso i segni nei corpi, e ne soffrono per le ovvie ricadute psichiche, ma fanno soffrire anche noi nel vederli, nel tentativo anche buonista di relazionarci con loro magari senza necessariamente riuscirci o al contrario producendo in noi semplicemente il desiderio o il bisogno psicologico di evitarli, di scansarli, di allontanarli comunque in quell’altrove da cui sono fuggiti o in un altro altrove che comunque sia tale anche per noi, cioè comunque lontano. La conseguenza (traumatica) di questa reazione, per altro spesso ambivalente, è nel lasciarli emarginati o addirittura nel respingerli come persone e come gruppi (dato che essi non costituiscono a loro volta nemmeno un unico omogeneo gruppo). E, se appare spesso evidente la loro incapacità di “adattarsi” al nostro mondo anche quando noi proviamo a integrarli, il nostro peccato originario è quello di volerli comunque adeguare a noi, se non nel corpo quanto meno nelle nostre forme sociali e culturali; ma è come pretendere che, “regolarizzandoli”, essi mettano i propri antenati, i propri riti, i propri ricordi, insomma le proprie identità, in una soffitta o nel ripostiglio dove noi mettiamo le nostre cose inutili.
[1] Cfr. Georges Canguilhem: “Il normale ed il patologico” – Parigi, 1966; trad. it Torino, 1998.
[2] Cfr. Claudia Luongo: “La malattia come fattore socio-culturale” – Bologna, 2017.
[3] “Il senso del male - Antropologia, storia e sociologia della malattia” (con Claudine Herzlich) – Parigi, 1984; trad. it. Milano, 1986.
[4] Ibidem.
[5] Il richiamo al fondamentale testo “Culture egemoniche e culture subalterne” di Alberto Maria Cirese (Palermo, 1973) è in questo contesto d’obbligo.
[6] Claudia Luongo, op. cit.
[7] Cfr. “Antropologia medica: teoria e metodologia”, in “Educazione alla salute” n.13, 1986.
[8] Claudia Luongo, op. cit.
[9] Cfr. di Alfredo Ancora: “I costruttori di trappole del vento - Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale” - Milano, 2006; e “Corpo, anima e permesso di soggiorno”, da “Lo Straniero” n.VII, 2003.
[10] Sull’argomento si rimanda, in particolare, a Guido Giarelli: “Storie di cura: medicina narrativa e medicina delle evidenze: l'integrazione possibile” - Milano, 2005.
[11] Ivo Quaranta – Mario Ricca: “Malati fuori luogo: medicina interculturale” - Milano, 2012.
[12] “Can we speak of psychological pollution?” – da “Psicosomatica”, dicembre 2005.
[13] Ibidem.
[14] Introduzione a “Non siamo soli al mondo” di Toble Nathan – Parigi, 1999;- trad. it. Torino, 2003.