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Dott. Angelo Villa

Psicoterapeuta

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Trauma e Corpo

2025-02-04 01:45

di Stefania Torrasi

FORT-DA numero 4/2025,

Trauma e Corpo

Trauma e Corpo di Stefania Torrasi

Introduzione.

Appare necessario, preliminarmente, accennare brevemente l’esperienza della nascita e i primi sviluppi emotivi e psicologici del neonato, con particolare attenzione al legame madre-figlio e alla sua evoluzione. Particolarmente significativo il momento del parto, soprattutto per il bambino, che affronta una grande transizione, dalla vita intrauterina a quella extrauterina, in cui il neonato, come osservato dal medico francese Frederick Leboyer, percepisce il distacco dal cordone ombelicale e l’impatto di questa separazione, che rappresenta un’esperienza traumatica di perdita e impotenza.

Il neonato rappresenta, pertanto, un attivo partecipante del suo processo di maturazione, in cui la dipendenza dalla madre va oltre la nutrizione e si estende alla ricerca di sicurezza e integrazione psicologica.

In tale contesto non si può non fare riferimento alla "transizione dall'acqua all’aria", una metafora che descrive perfettamente lo stato di perdita e allo stesso tempo di vulnerabilità del neonato che non ritrova più alcuna forma di contenimento dalla sua stessa fonte di vita. Proprio tale istinto, causato da un profondo stato di dissociazione, lo induce e lo spinge, come rappresentato dalla psicologa Esther Bick, alla frenetica ricerca di un oggetto, come il capezzolo in bocca, o di percezioni, come la voce della madre, il suo odore, un suono, la sensazione forte di essere tenuto tra le sue braccia, capaci di tenere insieme le componenti della personalità.

La madre gioca, quindi, un ruolo fondamentale nel fornire un contenimento emotivo e nella creazione di un ambiente sicuro, attraverso la “preoccupazione materna primaria” di Donald Winnicott (1958), che implica una continua sintonizzazione emotiva tra madre e bambino “tenere il bambino nella mente, sintonizzarsi con lui, trasmettergli pazienza e attenzione”.

È altrettanto vero che non appare per niente facile per i genitori comprendere a fondo la paura e l’angoscia del neonato di fronte a nuovi ed improvvisi stimoli come il freddo o il caldo, la fame, i rumori improvvisi, o ancora la sensazione di solitudine ed isolamento al suo risveglio, fenomeni mai conosciuti e sperimentati nel grembo materno.

Nei primi mesi di vita è sempre più difficile per la mamma e il bambino trovare il proprio ritmo: ritmo sonno-veglia, ritmo del flusso del latte dal seno o dal biberon e adattamento al ritmo di suzione del bambino. Questi processi di scambio che nascono dalle esperienze iniziali innescano processi non solo nutrizionali, ma anche psicologici che continuano per tutta la vita. Il successo dell’adattamento reciproco dipende anche da molti insuccessi e disaccordi e in questa ricerca di adattamento il bambino è un partecipante attivo nel processo di dialogo e maturazione. Lo sviluppo emotivo e intellettuale sono strettamente correlati alle esperienze nutrizionali della prima infanzia. In tale contesto, la fame può avere significati tra loro eterogeni, tra cui fame di apprendimento, fame di amore e comprensione e fame di vita.

La progressiva comprensione materna della personalità del bambino, la nascita della relazione e il reciproco sviluppo dei sentimenti più profondi, generano un attaccamento ad un oggetto primario, fondamentale nel processo di sviluppo e crescita, che segnano il bambino e pongono le fondamenta per tutte le sue relazioni future. Tuttavia, in tale processo di vita, di unione inscindibile e di relazione, non può non considerarsi la rilevanza della separazione del bambino dalla madre, necessaria affinché questi prenda coscienza di sé come persona indipendente, distinta dalla madre, con una propria identità e con delle proprie risorse personali. Ecco allora che il passaggio al biberon, risulta uno strumento necessario per il bambino per affermare la sua individualità e autonomia.

 

Trauma e corpo.

Nella mia pratica clinica in istituzione, la rianimazione pediatrica, la psicoanalisi ha un posto importante nel trattamento di situazioni traumatiche.

Nell’unità in cui opero vengono ricoverati bambini che necessitano di terapia intensiva per il supporto delle funzioni vitali; si tratta di bambini con patologie acute o croniche che, se sopravvivono, ritornano a casa dopo un periodo più o meno lungo di ospedalizzazione.

In rianimazione pediatrica, sia il medico che il genitore si possono trovare come “sospesi”, di fronte alla possibile morte del bambino, senza alcuna rappresentazione possibile di fronte alla necessità di un intervento urgente di terapia intensiva. Si trovano esposti al reale dello “spavento” senza una possibile preparazione a quello che accadrà, con una difficoltà per il simbolico di accedere. In quell’istante, di norma, si può solo “agire”. È vero, tuttavia, che se le cure vengono fornite nell’urgenza e in maniera meccanica, senza un altro che desidera e parla, il bambino rischia di rimanere solo in posizione di “oggetto” manipolato nell’unica prospettiva della sopravvivenza.

L’intervento clinico, attraverso la psicoanalisi sul bambino e sulla famiglia apre ad un discorso nuovo e, precisamente, alla questione sulla quale mi sono interrogata: cosa fare per rendere operativa la clinica di Lacan, permettendo, cosi, l’incontro tra il bambino “oggetto” della medicina e il bambino “soggetto” della psicoanalisi. Ed ancora, come fornire un supporto ai genitori e ai medici in modo diverso.

Mi sono chiesta se fosse possibile operare uno scarto tra la posizione del terapeuta che opera con la parola, creando uno spazio in cui parlare del soggetto e la posizione del medico che parla preso dal reale del corpo e dal trauma della malattia. Per meglio dire, fermarsi ad “osservare” un bambino, cosa specifica della pediatria, o permettere al bambino di soggettivarsi, permettendo l’incontro con l’Altro come Altro della parola e del desiderio.

La differenza tra il rianimatore pediatrico e il terapeuta orientato dalla psicoanalisi è dello stesso ordine di quello che separa sapere e verità. Il sapere medico dei medici, che riguarda tutti i bambini, non è la verità di una storia che, invece, è diversa, uno ad uno per ciascun paziente.

Per i genitori, il bambino diventa sintomatico di tutto un dramma familiare, che l’evento “trauma” materializza. Disarmati, essi cercano spesso di dare un senso a questo evento e di trovarne una causa. Ma per chi opera, orientato dalla psicoanalisi, non si tratta di cercare né cause né effetti, si tratta di trovare ciò che articola il trauma alla storia dei genitori, perché essi possano vivere diversamente il trauma e perché un incontro col loro bambino sia reso possibile. Per fare questo occorre poter parlare anche della morte. Non si tratterà di prendere i genitori in analisi, ma di non cadere nelle trappole fantasmatiche nelle quali i genitori sono presi e che impediscono che venga fatto posto al bambino. Quando alla nascita, a causa del trauma per la possibile morte del neonato, la parola della madre non può indirizzarsi al bambino, egli non potrà nascere come soggetto in quanto, in un servizio di rianimazione, sono le macchine che rispondono ai suoi bisogni vitali, entrando a far parte del suo corpo. Se il bambino è lasciato alla sola macchina, il rischio è che la sua nascita soggettiva possa essere impossibile. Nel trattamento dell’Altro familiare orientato dalla psicoanalisi, il terapeuta non rinuncia a parlare col soggetto madre per creare uno spazio nella sua mente e per parlare col bambino.

Questa sua “non rinuncia nell’ordine del desiderio”, permette alla madre di poter aprire uno spazio mentale dentro lei per pensare e dire del bambino, dandogli così la possibilità di costruirsi e nascere come soggetto.

Prima che ciò avvenga, in questo tempo sospeso, il personale della rianimazione si troverà a fare da supplenza simbolica per il bambino. Come ripensare a questa funzione del personale?

Attraverso il lavoro di costruzione del caso clinico e la costruzione di un gruppo di parola, i medici si possono  interrogare sul loro modo di curare e sul rapporto che hanno con i loro Pazienti e familiari; proporre loro dei gruppi di discussione clinica del caso in cui evocare le difficoltà che incontrano e dove diventi possibile capire ciò che succede, per esempio durante decisioni così difficili come le sospensioni delle manovre di rianimazione, o comunicazione di malattia o di morte e ancora permettere di individuare ciò che accade nell’incontro tra loro, i pazienti e le famiglie.

Orientati dalla pratica lacaniana si potrà fare, quindi, un lavoro istituzionale, proponendo incontri che portino a pensare intorno a qualcosa che si colloca al di là delle cure dello sviluppo, al di là dei protocolli disponibili sul bambino o sul legame madre-bambino, e ad individuare l’impatto che il trauma fisico del bambino che ci è stato affidato può avere su ciascuno di noi, membri dell’unità di rianimazione. In tale configurazione io non sono nella posizione di uno specialista in più chiamato a risolvere un problema specifico ma ho preso parte come soggetto che è dentro, e non fuori, a un vero progetto di lavoro che sostiene il loro desiderio di incontrare diversamente il piccolo paziente, la sua famiglia ed i colleghi.

La sfida nel reparto è potere sostenere ogni giorno sia l’urgenza degli atti legati all’intervento di rianimazione che la possibilità di permettere al bambino di emergere come soggetto, facendolo entrare nel campo della parola, anche se ancora non parla; si tratta di “fare esistere” il bambino non solo attraverso il trauma, permettendo al genitore di “incontrare” il bambino e dargli un posto.

Introdurre uno “spazio di parola” ove pensare, nel paradosso del pensare l’impensabile, uscire dall’impensabile e non restare fissati alla sofferenza che rischia di identificare il bambino solo nella

sofferenza, con il rischio che il bambino non nasca mai come soggetto.

Per concludere un breve frammento di una sequenza di un intervento clinico:

Nicolò è un bambino prematuro che nasce a 5 mesi a causa di una malformazione alla placenta con un peso di 750 g e con insufficienza respiratoria gravissima.

Nei mesi successivi alla nascita Nicolò, che ha subito diversi ricoveri in vari ospedali e durante i quali entrambi i genitori sono stati sempre presenti, viene portato in rianimazione da noi a Palermo. A distanza di alcuni giorni dal ricovero nel reparto, i medici, abbandonata ogni speranza, comunicano l’imminente sopraggiungere dell’evento morte e la conseguente necessità di pensare ad organizzare il funerale.

La prima volta che incontro la madre di Nicolò, 32 anni, mi appare molto magra, con un umore triste e depresso a seguito dell’infausta notizia comunicata dal personale medico. II padre, un uomo di 43 anni, barbiere di professione con e una grande passione per la musica (suona in una piccola banda locale), appare di umore un po' meno depresso rispetto alla moglie.

In tale contesto, mi viene raccontata la storia della gravidanza di Nicolò.

In particolare, dopo 2 anni di tentativi in cui i genitori, Rossella e Marco, non riescono ad avere figli, svolgono una serie di controlli, a seguito dei quali Rossella scopre di essere incinta e di essere già al terzo mese di gravidanza, circostanza dalla stessa non conoscibile a causa di un fibroma che aveva provocato irregolarità del ciclo mestruale da diversi mesi. Dopo il primo colloquio con i genitori, osservo la loro interazione con Nicolò: all’inizio, il bambino appare depresso, tiene sempre gli occhi chiusi e trema, vuole la copertina sempre addosso, come se questa lo rassicurasse e rappresentasse per lui una sorta di placenta che lo contiene, che lo avvolge, dal momento che la madre è incapace di tenerlo tra le braccia e accudirlo, spaventata e triste. Il bambino è ricoperto di tubi e fili che gli invadono il corpo, ha lo sguardo fisso sul punto luce presente nella stanza, a cui si aggrappa come difesa, e non cerca alcun tipo di interazione con l’Altro. Presenta una dermatite alla mano, sintomo che secondo la Bick sarebbe da mettere in relazione con un rapporto disfunzionale tra il neonato e la madre, soprattutto nei casi di “depressione materna”.

Nicolò tiene spesso la mano sul tubicino del sondino che lo nutre, probabilmente perché caldo e tra tanti tubi lo riconosce come elemento vitale. I genitori semplicemente lo guardano, vedendolo peggiorare giorno dopo giorno. Non riescono a chiamarlo per nome.

Al carattere anonimo delle cure fornite dal personale medico, Nicolò reagisce deprimendosi. Il bambino è da subito sensibile alla presenza dell’Altro come Altro della parola, del desiderio e della domanda, può persino lasciarsi morire se non viene preso come soggetto nel discorso dell’Altro.

La mamma, nelle varie sedute, si interroga sulla sua gravidanza, sulla possibilità di parlare della morte, ma anche sul fatto che il bambino sia ancora vivo. Attraverso la rivisitazione della propria storia, associata a quella attuale, riflette sulla voglia di crescere del bambino e sulla nascita prematura. Quest’associazione ha creato un cambiamento nella modalità relazionale tra la mamma e il figlio.

Il lavoro ha permesso alla mamma di recuperare il suo passato traumatico e di metterlo in una catena discorsiva, consentendole di inquadrare il trauma nella sua storia. Attraverso il significante “staccare”, si permette di fare l’associazione dell’episodio della propria nascita con il significante nel racconto della madre. È stato possibile mettere in relazione il trauma della propria nascita con il trauma della nascita di Nicolò.

Recuperando il suo ricordo d’infanzia, la mamma ha prodotto un effetto di spostamento nella catena significante dalla madre a sé stessa: questo effetto significante apre la parola della madre alla dimensione della sua storia e al riconoscimento del bambino come figlio e di sé stessa come madre.

Lei è nata a termine, ma al quinto mese di gravidanza ricorda che “si era ‘staccato’ il cordone ombelicale”, per cui non è stata alimentata per quattro mesi ed è nata piccola come se fosse prematura. La catena significante, che legava la madre di Nicolò a sua madre, attraverso il significante distacco-attacco mortifero, si è interrotta e lei, aiutata, può cercare un suo percorso di madre.

Qui l’aiuto che si può dare alla madre è un incontro, attraverso la parola, che permetta di accettare l’inaccettabile, pensare l’impensabile e non restare fissati al trauma che rischia di identificare il bambino solo nella sofferenza, con il rischio che il bambino non nasca mai come soggetto.

Si svela così la posizione soggettiva di ciascuno: chi parla può interrogarsi e uscire dallo stato di siderazione, permettendo al bambino di trovare un posto. L’analista deve accompagnare ciò che avviene, deve ascoltare e raccogliere l’impatto del trauma e gli effetti che questo ha sui genitori, non giudicando, e permettendo l’espressione di qualsiasi rappresentazione portata dai genitori. Sostenere il dire dei genitori e, attraverso l’elaborazione di un sintomo simile, permettere a ciascuno genitore di potere svolgere un lavoro di soggettivazione, secondo la cifra di un godimento indicibile e unico per ciascuno. Solo così sarà possibile recuperare i propri ricordi d’infanzia, ricostruire la propria storia e produrre un effetto di spostamento nella catena significante, effetto significante che apre la parola di un genitore alla dimensione della sua storia e al riconoscimento del bambino come figlio e di sé stessi come madre e padre.

Template grafico: Maria Diaz  |  Realizzazione sito web: Marco Benincasa

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